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Zucchero Sugar Fornaciari. Il ragazzo della Bassa che ha conquistato il mondo

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La musica di Zucchero Sugar Fornaciari arriva ovunque, anche in sperdute località del mondo dove non ha mai suonato nessuno e molti faticano a orientarsi perfino sulla cartina geografica. Zucchero va dove c’è da suonare, a qualsiasi latitudine e longitudine, senza preoccuparsi della capienza degli stadi o del numero degli spettatori. Viaggia per incontrare culture e sonorità diverse, spinto solo dalla musica e dalla curiosità. Il suo stile inconfondibile e originale è ricerca continua e quando la musica afroamericana, il jazz, il blues, il soul incontrano la melodia mediterranea, nasce la musica di Zucchero. Il ragazzo della Bassa Padana che oggi ha il mondo negli occhi, racconta con semplicità una storia pazzesca e fiabesca che comincia a Roncocesi di Reggio Emilia, dove la musica si ascoltava solo dalle casse delle giostre il giorno della festa di San Biagio. E allora Zucchero la musica se la creava, la casa della nonna Diamante era il luogo libero e magico dove tirar fuori oggetti che diventavano strumenti da percussione e la promozione a scuola era l’occasione per chiedere in regalo una chitarra. Eric Clapton, tra i chitarristi blues e rock più famosi al  mondo, qualche anno dopo rimarrà conquistato da quella musica e da quella chitarra. Non sarà il solo, perché tutti i più grandi musicisti del mondo, lo chiameranno   a suonare con loro e dopo ancora qualche anno, saranno loro a suonare con il grande artista diventato, nel frattempo, Zucchero Sugar Fornaciari, un artista planetario. Ha suonato in 5 continenti, 69 Stati, 628 città, cantando sempre in italiano, ambasciatore di una lingua che attraverso la musica, parla ed emoziona il mondo. Duetta con Luciano Pavarotti, accompagna un amico a trovare Sting che la mattina successiva lo fa diventare padrino di battesimo della figlia, fa un concerto a cui assiste per caso Eric Clapton che subito lo invita in tournèe, nascono rapporti che durano nel tempo, perché Zucchero è l’Adelmo autentico e sincero che conosce il valore delle cose semplici. La terra, la natura, gli animali, la libertà di spazio e di pensiero, lo rendono uno spirito libero che accende il buio. Un anno e mezzo di stop a un tour mondiale già organizzato, ai live, alla sua vita di cantautor errante, non lo fermano. Dalla sua House of Blues, un ex stalla riattata a baracca del Mississippi, in  Lunigiana, la terra di confine tra Toscana e Liguria dove vive, ribattezzata Lunisiana Soul, compone e regala musica. Voce e chitarra, voce e piano, ed è subito Zucchero, in streaming, sui social e ora con un disco, autentico, acustico, nudo e crudo che presenta a Fondazione Osservatorio Roma e America Oggi.

Zucchero, oltre alla maestra delle elementari che le ha dato il nome artistico con cui è conosciuto in tutto il mondo, crede di aver avuto buoni maestri nella vita?

Penso di si, prima di tutto la mia famiglia, i miei genitori, la  mia dolcissima nonna Diamante, alla quale ho dedicato una canzone, che è stata fondamentale soprattutto negli anni della mia adolescenza, perché mi ha accompagnato e guidato verso valori genuini e radici profonde. La mia non era una famiglia di chiesa, a parte mia madre che ci andava sempre, eppure sono stato cresciuto nel rispetto degli altri e delle diverse ideologie. Ho avuto un’infanzia felice di cui conservo un bel ricordo. Nella vita ho poi incontrato persone sagge, libere nel pensiero, artisti, musicisti, scrittori  che mi hanno ispirato, ma i veri maestri sono  le persone più semplici, quelli che vivono nei paesi e che sono diretti, sinceri e genuini.

La nonna Diamante le permetteva di suonare le percussioni su ogni oggetto che aveva in casa?

Mi lasciava fare quello che sentivo, io volevo fare il musicista e lei mi assecondava e mi stimolava. I miei genitori lavoravano e la nonna e mio zio erano le persone con le quali trascorrevo più tempo.

Come fa un ragazzo della Bassa, con una chitarra in mano, a conquistare il mondo?

Non lo so neanche io, ero solo preso dalla musica, non avevo scopi particolari, non avrei mai pensato di fare il giro del mondo, fare concerti ed essere apprezzato a questi livelli. A me bastava solo poter vivere decorosamente di musica, nel momento in cui ho scelto la musica e lasciato l’università dove studiavo per diventare veterinario. Mi ero sposato giovanissimo, avevo due bambine, suonavo nei locali fino all’alba, non riuscivo a conciliare le due cose. Ho scelto la musica anche perché mi permetteva di guadagnare qualcosa. Ho avuto la determinazione di voler vivere di musica ma ho fatto anni di gavetta, ricevuto porte chiuse in faccia ma a un certo punto, sono riuscito a far succedere qualcosa. Nel 1985 il brano “Donne”, presentato al Festival di Sanremo e arrivato penultimo, divenne un successo. E’ cominciato da lì un percorso importante e stimolante che non mi sarei mai aspettato. Io volevo solo vivere di musica.

Zucchero ha sempre conquistato Sanremo, sia quando è arrivato penultimo, sia quando da autore si è accaparrato il primo e il secondo posto nella stessa edizione, sia quando è stato super ospite. Cosa rappresenta il Festival per la canzone italiana nel mondo?

E’ una vetrina importante per gli Italiani nel mondo, sempre molto seguito, in Italia e all’estero. Ho partecipato a 3 Festival, dal 1980 in poi. Nei primi 2 sono passato inosservato, poi mi sono ribellato alla mia casa discografica e mi sono imposto per suonare la musica che piaceva a me. E al terzo Festival è cominciato finalmente a succedere qualcosa. Oggi il Festival è uno spettacolo prevalentemente televisivo, un contenitore di tante cose. Prima c’era forse più attenzione alla canzone che era la vera protagonista e decretava il successo di un artista. Il Festival resta sempre una vetrina importante soprattutto per i giovani che hanno qualcosa da proporre.

Nel 1995 il suo primo tour negli Stati Uniti “Spirito Divino Tour” viene annunciato nel corso del David Letterman Show. Un esordio così fragoroso da dove nasce?

Non lo so neanche io. Avevo già fatto tre album di successo in Italia, una tourneè con Eric Clapton in Europa, 12 date alla Royal Albert Hall e “Spirito Divino” è uscito in un momento in cui riempivo gli stadi e avevo uno status molto alto. Essendo la mia prima tourneè negli Stati Uniti, forse aveva destato un po’ di curiosità. Fu un tour molto bello e importante, che poi proseguì in Sud America e in altri posti dove non ero mai stato. Ho sempre sognato di suonare in America, perché insieme alla mia italianità, alle mie radici emiliane che comprendono anche Giuseppe Verdi, il  restante 50% della mia musica viene dall’America, dal Soul, dal Blues e dal Rhythm and blues, con una grande influenza afroamericana.

Perchè ha scelto di suonare in destinazioni lontane e sconosciute e cosa si è portato via da quei luoghi e da quelle genti?

Sono nato libero, nomade, non amo la stanzialità e la routine. Il viaggio è fondamentale per me, mi ispira nuove emozioni e nuove creazioni. Ho sempre amato fare concerti girando il mondo e quando mi propongono di suonare in posti come la Nuova Zelanda, Nuova Caledonia, Tahiti, Islanda e nel Sud degli Stati Uniti, dove non tutti vanno perché sono posti che non funzionano nel loro itinerario o perché non hanno interesse ad andare, io invece parto.  Io vado dove c’è da suonare e quando sono capitate occasioni in cui potevo unire la mia musica alla scoperta e alla conoscenza di nuovi luoghi, sono andato senza farmi troppi problemi.

Quanto è importante la musica per aprire le menti e per accendere lo “spirito nel buio”?

La musica è importante e non ne possiamo fare a meno. C’è chi lo fa per mestiere, chi la ascolta e la consuma, ma la musica, come l’arte in generale, è tra le cose fondamentali della vita. Io vivo di musica, quando sono in giro a suonare e quando sono in casa a scriverla. E’ bello e impegnativo, perché la fase creativa può determinare anche sofferenza se non si trovano le ispirazioni giuste. Quello del musicista non è un mestiere facile, contrariamente a quanto sembra, richiede studio, impegno, passione. Io amo contaminarmi con altri generi, mi interessa la ricerca e quando faccio concerti fuori dall’Italia, canto sempre in italiano, perché  la musica parla, è già un linguaggio. Il pubblico apprezza questa linea e capisce che con le mie canzoni scritte in italiano e cantate in italiano arriva l’emozione di tutto l’insieme, voce, parole, musicisti che accompagnano la mia musica, che ha radici italiane e sonorità internazionali.

Cantare in italiano su una musica che nasce dall’incontro tra melodia mediterranea e black music è la sua forza e la sua originalità?

Quando collaborai con Miles Davis nel 1987 facendo anche un minitour negli stadi, una sera a cena mi disse “tu devi cantare in italiano, perché così sei unico e con questa musica sei speciale e diverso”.

Zucchero quando diventa SUGAR Fornaciari?

Il mio primo disco “Solo Zucchero”, ebbe poco riscontro perché la casa discografica pensava che la mia voce, su una musica che aveva influenze afroamericane, non avrebbe funzionato e mi spingeva a fare un repertorio molto pop che però non mi apparteneva. Con quel disco non successe niente ma fu l’occasione per ribellarmi e chiesi di poter fare un disco come lo sentivo io, con i suoni e la musica in cui mi riconoscevo. La casa discografica non ci credeva molto ma mi concesse l’ultima possibilità, mettendomi a disposizione pochissimi soldi per fare il disco. Volai a San Francisco, dove conoscevo Corrado Rustici, un produttore italiano che viveva lì e aveva suonato con Aretha Franklin e altri artisti importanti, che accettò di fare il disco purchè lo registrassimo in una settimana. Ci sono riuscito, era finalmente il disco che volevo, in sintonia con quello che ero io.  In omaggio alle influenze afroamericane che aveva la  mia musica, ho aggiunto a Zucchero il nome Sugar, mantenendo il mio cognome italiano. Nasce così Zucchero Sugar Fornaciari.

New Orleans le piace molto perché le ricorda la sua terra. Ha trovato la mostarda e l’erbazzone anche lì?

Non ho trovato l’erbazzone ma ho trovato il pesce gatto fritto, piatto tipico della tradizione di New Orleans che io pensavo si trovasse soltanto intorno al Po’, dove noi andavamo a pescarlo e poi lo facevamo fritto. La prima volta che sono atterrato a New Orleans ho visto le paludi e le coltivazioni, le farm, intorno al Mississippi che mi hanno ricordato esattamente il luogo dove sono cresciuto. Poi, quando sono andato al ristorante, ho visto il pesce gatto fritto che per chi è cresciuto intorno al Po’ è una specialità, e ho pensato che quella fosse proprio casa mia.

Ed è nata Lunisiana Soul. Cos’è esattamente?

Vivo a Nord della Toscana, al confine con l’Emilia. E’ una regione che si chiama Lunigiana, perché pare fosse la terra della luna, una zona piena di storia, castelli e leggende. Abito in un borgo medievale, in quello che un tempo era un mulino sul fiume e poiché amo molto la Luisiana, ho chiamato questa terra che appartiene alla mia tenuta, Lunisiana Soul. E’ il mio buen retiro.

Passa molto tempo nella House of Blues?

La House of Blues, vista da fuori, sembra una grande baracca del Mississippi che però contiene mille persone, c’è un palco, i camerini, un bar. L’ho costruita pensando al futuro, a quando non potrò più suonare in giro per il mondo, per continuare a fare musica a casa mia.

E dalla House of Blues ha scritto, composto e regalato musica, sui social, in streaming e con due dischi, DOC DELUXE e con il nuovo INACUSTICO D.O.C. & MORE, fresco e autentico come il posto in cui è stato scritto. 25 canzoni, brani inediti e una selezione di canzoni molto amate nei live, in una dimensione acustica coinvolgente e nuova. Voce e chitarra, voce e pianoforte ed è subito Zucchero?

L’intenzione era quello di creare un disco nudo e crudo, come le mie canzoni quando nascono,  con la mia voce, una chitarra o un pianoforte. Ho cercato di ricreare un’atmosfera minimalista dove il pubblico può immergersi e identificarsi nel modo in cui scrivo le canzoni. I due dischi sono stati la mia risposta in musica alle difficoltà che abbiamo tutti vissuto in questo tempo di pandemia. Io, i miei musicisti e tutti quelli che rendono possibile le nostre tourneè, più di 80 persone, eravamo pronti per il tour mondiale, 150 date in giro per il mondo che abbiamo dovuto rimandare, con conseguenze di ogni tipo. Il tour si farà nel 2022 e partiremo proprio dall’America.

Ai miei musicisti ci penso io” e ha regalato loro i proventi di Soul Mama. La cosa le fa onore

Le persone che lavorano nell’ambito artistico non sono state oggetto della necessaria sensibilità. Sono arrivati pochissimi soldi e molti professionisti, ingegneri del suono o tecnici delle luci, hanno dovuto cambiare lavoro. Io ho cercato di tenere unita la mia band, i miei musicisti che sono con me da moltissimo tempo, italiani e americani. Partiremo in tour ad aprile 2022, manca molto tempo ma per ora siamo ancora tutti insieme.

L’elenco delle sue prestigiose collaborazioni internazionali è lungo e stellare, ma quando nomi come Sting, Elton John, Stevie Wonder, Eric Clapton, Bono sono entrati per la prima volta nella sua vita, Adelmo, il ragazzo della Bassa, cosa ha pensato?

All’inizio ero incredulo. La mia prima collaborazione è stata con Miles Davis, il genio che tutti conosciamo  si innamorò di una mia canzone e volle suonarla. Eric Clapton era in vacanza in Sicilia, venne a sentire un mio concerto nello stadio di Agrigento e alla fine mi disse che il mondo avrebbe dovuto conoscere la mia musica. Mi invitò a fare da supporter in una sua tourneè europea molto importante e in quella occasione la casa discografica cominciò a pubblicare i miei dischi anche fuori dall’Italia. Cominciò così una certa curiosità nei miei confronti, un artista che non era né anglosassone né americano ma che stava facendo cose un po’ diverse, mi hanno ascoltato, chiamato e poi la musica ha fatto il resto.  Sono stato chiamato da Brian May dei Queen per il concerto tributo a Freddy Mercury a Wimbledon perché si era innamorato del mio disco “Oro, incenso e birra”. Sono nati rapporti  in cui la musica è il filo conduttore, ma  lo è anche l’empatia che si stabilisce, lo stare bene insieme.

Il duetto con Luciano Pavarotti, iconico di italianità nel mondo, da Miserere, al Pavarotti & Friends, a NY sulle note del “Va pensiero”, è l’incontro di due ragazzi della Bassa, lei di Reggio Emilia, Pavarotti di Modena, che rendono planetario lo stile musicale italiano. Quale immagine dell’Italia ha portato nel mondo?

Il nostro incontro ha innanzitutto sdoganato l’immagine dell’Italia rappresentata sempre con gli spaghetti, western o rock. Il rapporto con Luciano è stato molto forte, emozionante, insieme parlavamo il nostro dialetto, giocavamo a carte, lui mi chiamava “Cicciopaciccio”, io Lucio, tutti e due eravamo amanti della musica, del buon cibo, del buon vivere, dello stare insieme.  Quando gli feci proporre dalla mia casa discografica “Miserere”, disse che il brano gli piaceva ma che non poteva farlo. Non convinto, gli telefonai, mi invitò a casa sua, andai il giorno dopo, gli feci sentire il brano e il no divenne un sì. Era la prima volta che Luciano faceva un duetto con un artista non lirico. Da allora siamo diventati molto amici, per me è stato un maestro e un fratello maggiore, insieme abbiamo inventato il Pavarotti & Friends che ha fatto il giro del mondo, in 12 edizioni dove sono passati tutti i più grandi artisti internazionali che volevano condividere il palco con Luciano. Pavarotti diceva che non esistono etichette in musica, l’unica differenza è tra la buona e la cattiva musica. Grazie al Pavarotti & Friends, che aveva uno scopo umanitario importante, abbiamo aperto scuole di musica per i bambini in guerra in Jugoslavia, un ospedale in Liberia, uno in Guatemala.

Quando si parla di concerti per beneficienza, Zucchero c’è.  E’ da sempre ambasciatore di buone cause, da Nelson Mandela alla tutela per le foreste pluviali, al terremoto dell’Aquila. L’impegno sociale, civile e culturale da dove nasce?

Mi ritengo fortunato perché vivo di quello che mi piace fare e con successo. Soffro da star male quando vedo le minoranze emarginate, i bambini che non riescono a vivere una vita accettabile. Cerco di impegnarmi selezionando con attenzione le iniziative che mi vengono proposte. Peter Gabriel, Bono, Pavarotti, Clapton sono persone integerrime, ho aderito sempre con piacere ai loro eventi. In passato ci sono state purtroppo occasioni organizzate per scopi benefici, i cui proventi non sono mai arrivati dove erano destinati.

Zucchero e Sting, una collaborazione artistica fruttuosa ma anche un’amicizia trentennale. Che storia racconta?

E’ una storia molto particolare che comincia nel  1989, da quando Sting viene  in Toscana un paio di mesi ogni estate. Un mio amico fotografo un giorno mi chiede di accompagnarlo a casa di Sting, ci conosciamo, parliamo e lui mi invita a trattenermi a dormire a casa sua. Il mattino dopo c’era il battesimo di sua figlia Coco, in una chiesetta vicina  e mi chiede se posso tenerla a battesimo come padrino. Stupito, gli chiedo perché proprio io. “Perché mi sai di buono”, mi risponde. Naturalmente ho accettato e sono il padrino di Coco, la figlia di Sting, una ragazza molto talentuosa che scrive musica.  Sting e io abbiamo fatto tante cose insieme, duetti su brani,  il suo “Amore per te” di cui ho fatto il testo in italiano, eventi per la sua Fondazione, a febbraio dello scorso anno eravamo al Radio City Music Hall. Questa estate era qui in vacanza, ha composto “September”, lui ha scritto una parte del testo in inglese, io una parte in italiano e dopo, ciascuno di noi, l’ha inserita nel proprio disco.

Con la sua musica ha affrontato e vinto anche sfide con la storia, il concerto a Cuba sotto embargo, al Cremlino dopo la caduta del muro…Ma la musica di Zucchero è davvero così potente?

Non lo so (ride). Io ci metto l’anima, in ogni disco che faccio e in ogni cosa, ho molto rispetto del pubblico che ascolta la mia musica, che viene ai miei concerti, che compra i miei dischi. Alla fine di ogni concerto, dico sempre “a buon rendere”.

Qual è il concerto perfetto?

Quando sul palco i musicisti suonano tutti insieme come un orologio che funziona, con una miscela di cuore, stomaco, sangue e una corretta espressione musicale nei vari strumenti. Fuori dal palco, quando la gente ti trasmette amore, calore, energia che mi fanno passare anche momenti di stanchezza o di difficoltà che sono nella vita di tutti e naturalmente anche nella mia. Io però spero che ci sia sempre un concerto migliore.

Ma i pubblici sono tutti uguali quando cantano le sue canzoni o ci sono elementi caratterizzanti?

Dipende dal posto, in Russia o nei Paesi Scandinavi il pubblico non si manifesta subito. In Italia o in Giappone, ancor prima di entrare sul palco, c’è già euforia, voglia di cantare e di ballare. In alcuni Paesi prima ascoltano due, tre pezzi,  poi man mano si scaldano e se li sai coinvolgere, alla fine sembrano tutti Italiani, anche perché io li faccio saltare.

E ognuno accende il diavolo che è in sé. Ciao Zucchero, ciao Babe, Yea!

Ciao a tutti gli Italiani che vivono in America. Arrivo presto!

Maria Teresa Rossi
Maria Teresa Rossi
Osservo, scrivo, racconto. Per la Fondazione Osservatorio Roma e per Osservatorio Roma il Giornale degli Italiani all'estero..

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